Gli effetti della siccità sull’agricoltura iblea: aumento dei costi per le imprese e cali produttivi tra il 30% e il 50% per agrumi, uva e olive

L’analisi del Presidente di Confagricoltura Ragusa all’interno dell’intervista di Nadia D’Amato pubblicata su La Sicilia di sabato 2 novembre

Gli effetti della siccità sull’agricoltura iblea

“Gli effetti della siccità sulle colture nella cosiddetta Fascia Trasformata sono evidenti e preoccupanti. La qualità delle produzioni agricole subisce danni notevoli: la resa delle colture diminuisce e il calibro dei prodotti si riduce, comportando un calo significativo del loro valore di mercato. Ad essere maggiormente colpita dagli effetti della siccità l’agrumicoltura, la viticoltura e l’olivicoltura (con riduzioni della produzione che variano tra il 30% e il 50%)”.

Costi crescenti per gli imprenditori agricoli: l’impatto economico della siccità

“Questi cali produttivi non solo compromettono la sostenibilità economica delle aziende agricole, ma compromettono la qualità dei prodotti offerti al mercato. Le aziende agricole si trovano costrette a ricorrere a fonti di approvvigionamento idrico autonome, affrontando così un incremento dei costi energetici di almeno il 20% rispetto alla norma. Nelle aree più colpite dalla siccità, gli imprenditori agricoli hanno dovuto investire nella costruzione di canali di collegamento che si estendono per diversi chilometri, al fine di garantire l’accesso all’acqua necessaria per le loro coltivazioni. I disagi sono stati meno accentuati per le aziende che coltivano ortaggi in serra, grazie alla loro concentrazione e a una gestione delle risorse idriche più centralizzata e meno complessa”.

Si abbassano i livelli delle falde acquifere e cambia la composizione dell’acqua

“C’è da evidenziare che il massiccio prelievo dalle falde acquifere sta causando un abbassamento del livello delle stesse, rendendo l’acqua sempre più salina. Questo fenomeno costringe gli imprenditori a effettuare ulteriori interventi chimici correttivi, aumentando ulteriormente i costi di produzione. Il prezzo finale dei prodotti ortofrutticoli risente inevitabilmente di questi aumenti di costi legati all’approvvigionamento idrico.

Leggi

Carote, volumi a picco e costi alle stelle. Giadone: “Attese alte dalla GDO. Importante programmare”

L’analisi di Roberto Giadone (Natura Iblea) in un articolo di Corriere Ortofrutticolo

Per la carota novella siciliana si profila un’annata complicata. Il clima ancora una volta ha inciso in maniera determinante sulla produzione. Se la mancanza di volumi porterà ad un aumento dei prezzi, di contro sono saliti in maniera considerevole i costi, con diverse aziende che si sono trovate in forte difficoltà.

A tracciare il quadro della situazione è Roberto Giadone (nella foto), a capo di Natura Iblea di Ispica (Ragusa), una delle principali realtà produttive biologiche siciliane. “Il periodo di semina della novella (che va da settembre a novembre, ndr) è stato ad dir poco complesso, caratterizzato da una forte siccità – esordisce l’imprenditore siciliano. Durante il mese di ottobre non è caduta una goccia d’acqua. Non era mai capitato prima. L‘irrigazione aggiuntiva necessaria per consentire la maturazione degli ortaggi ha aumentato i costi di almeno il 40%. Nonostante ciò il 30% della carota prevista non è nata, proprio a causa di terreni rimasti per troppo tempo asciutti: quando si è iniziato a seminare e irrigare i terreni a regime biologico sono stati attaccati dagli insetti. Pertanto nonostante i prezzi si siano innalzati – con una domanda sostenuta e un mercato molto attivo – non sono e non saranno sufficienti per coprire i costi di produzione”.

Raccolta ai blocchi di partenza: si attendono le richieste dall’Europa

Nel frattempo sono partite le prime cavature. “Il grosso della produzione arriverà da marzo in poi. La qualità è buona ma mancano le quantità. L’Europa centrale non ha ancora iniziato a richiedere merce in quanto sta consumando ancora quella locale. Tuttavia quest’anno le prime richieste potrebbero arrivare già verso fine febbraio, quando di solito arrivano ad aprile, sempre per scarsa produzione anche in quelle aree produttive. Anche all’estero tante aziende chiudono e calano gli investimenti”, spiega Giadone.

Natura Iblea – che quest’anno prevede un calo produttivo di duemila tons, da 8 mila del 2023 a 6 mila tonnellate – fa della programmazione una delle sue peculiarità, fondamentale specialmente in questi periodi così complicati e poco decifrabili, condizionati dai cambiamenti climatici. “Già a ottobre stipuliamo contratti con la GDO europea che chiede il nostro prodotto biologico. Per la situazione così complessa in cui ci troviamo abbiamo chiesto ed ottenuto un aumento del 30% dei prezzi. La distribuzione si sta rendendo conto delle difficoltà a cui il mondo produttivo sta andando incontro e pur di non rimanere senza merce, quest’anno particolarmente scarsa in volume, è disposta a spendere di più”.

 

Emanuele Zanini

emanuele.zanini@corriereortofrutticolo.it

 

Clicca qui per leggere l’articolo su corriereortofrutticolo.it

 

 

Leggi

“L’emergenza manodopera continua, ecco perché l’agricoltura non attira i lavoratori”

L’analisi del dott. Roberto Giadone, presidente di Natura Iblea, importante azienda agricola biologica associata a Confagricoltura

Iniziamo dalla fine, in agricoltura manca manodopera e le aziende sono costantemente alla ricerca di personale.

La storia inizia nel 2020 con l’epidemia di covid19 e con le restrizioni alla mobilità. Si pensava che l’agricoltura potesse essere un catalizzatore di professionalità andate in crisi a causa del covid ed invece è stato un fuoco di paglia. I pochi operai transitati dal terziario all’agricoltura sono stati immediatamente riassorbiti da ristoranti ed hotel appena il settore è ripartito. Non abbiamo oggi una vera disponibilità di manodopera italiana se non casi fortuiti e meramente occasionali. Quali le cause? Perché gli italiani non vogliono lavorare in agricoltura? La prima risposta sembra ovvia ed è a causa del reddito di cittadinanza che garantisce un trattamento assistenziale quasi pari ad uno stipendio medio in agricoltura. Ma io non penso che sia questo il vero problema. La risposta penso si debba ricercare invece nella mancanza di “attrattiva” insita nell’attività agricola. Quale giovane italiano vorrebbe avere come aspirazione lavorativa quella di diventare un bracciante agricolo? Nessuno. Ma nel contempo mancano anche figure specializzate come i trattoristi, i serricoltori, i potatori. Questo è dovuto alle scelte scolastiche che sono influenzate da obiettivi di alto livello ed universitari (cosa giusta e buona) fatte anche da studenti che non hanno peculiarità ed attitudine allo studio (cosa molto errata). Bisognerebbe che le famiglie ed i ragazzi si dessero degli obiettivi raggiungibili e con percorsi scolatici che hanno degli sbocchi occupazionali sicuri. Rendere attrattive le professioni agricole passa anche dal messaggio che noi imprenditori agricoli inviamo alla società. Valorizzare e remunerare queste professionalità è indispensabile. Un responsabile della produzione in agricoltura è una figura paragonabile ad un product manager industriale o a un direttore di hotel con 100 camere. Paragoniamo le retribuzioni e gli ambienti di lavoro tra queste diverse figure e notiamo che in agricoltura è tutto più basso, tutto più sporco, tutto più precario. Dobbiamo smontare questo sistema in agricoltura ed adeguarci a standard, benefit e status lavorativi più alti.

Altro discorso vale per il bracciante comune, le nostre aziende hanno bisogno di manodopera comune. Ne manca circa il 40%. Sino ad ora il supporto ci è stato dato dagli extracomunitari che oggi rappresentano circa il 70% della forza lavoro comune in agricoltura. Oggi anche questo è venuto a mancare, non si trovano più lavoratori extracomunitari. In piccola parte è dovuto alle aspirazioni di elevazione sociale anche degli immigrati, ma il vero problema è dato dal minore arrivo di manodopera estera. Quelli che arrivano nelle nostre coste preferiscono andare all’estero (Francia e Germania soprattutto) attratti da maggiori salari e, soprattutto, da uno stato sociale che li inserisce e li guida nella nuova nazione d’arrivo. Ecco il vero problema. Bisogna aumentare i decreti flussi rendendoli attuali e passare dalle circa 70.000 unità del 2021 alle 200.000 del 2014. Le maglie della legge italiana sui flussi migratori si sono strette per ragioni politiche di parte, e questo sta creando un vero problema alle aziende. Non si può rilanciare l’economia italiana basata molto sull’agroalimentare senza avere una buona disponibilità di manodopera per i duri lavori agricoli. Ma bisogna anche finanziare ed organizzare delle strutture governative che integrino e diano supporto agli emigranti per non rendere un calvario trovare una casa in affitto per un operaio di colore o rinnovare un permesso di soggiorno a chi non parla bene l’italiano.
Voglio raccontare un’esperienza diretta avvenuta qui alla Natura Iblea l’anno scorso. I nostri dipendenti extracomunitari non si vaccinavano. Pensavamo che fossero stati influenzati dalle teorie no-vax. Ad un’analisi più attenta (cioè abbiamo parlato e chiesto loro) ci siamo reso conto che la maggior parte semplicemente non aveva gli strumenti per vaccinarsi, cioè un telefono/computer con connessione internet, la tessera sanitaria e la padronanza della lingua per capire le procedure. Detto fatto, con due nostri impiegati abbiamo effettuato le prenotazioni all’ASP e con dei nostri operatori li abbiamo accompagnati agli hub vaccinali. Risultato: 48 tra lavoratori e famigliari vaccinati in meno di 10 giorni. Questo lo abbiamo fatto noi con nostre risorse, ma è proprio questo che dovrebbero fare le strutture governative: ascoltare, intervenire e risolvere i problemi dei lavoratori extracomunitari, solo così potremo contare su una risorsa basilare per l’agricoltura che è la manodopera.

 

Roberto Giadone

Clicca qui per leggere l’intervista su Corriereortofrutticolo.it

Leggi

Pirrè: “I nostri comparti sono in panne, costi quintuplicati. Qualche potenziale spiraglio dai mercati del nord Europa”

Intervista a cura di Michele Farinaccio pubblicata su La Sicilia del 15-10-2022, all’interno dello speciale “Pianeta Imprese”

I rincari energetici, che non stanno risparmiando nessun settore, non possono non ripercuotersi in uno dei comparti chiave della provincia di Ragusa, come quello agricolo. Centinaia di aziende letteralmente al collasso, gravate non solo dai problemi atavici che hanno storicamente reso quanto mai difficile la vita economica delle imprese, ma oggi ancora di più dall’aggravarsi di costi che a volte sono più che quintuplicati.

«Il momento è complicato – dice il presidente di Confagricoltura Ragusa, Antonino Pirrè – è quella che noi chiamiamo tempesta perfetta. Con il Covid, tutto sommato, le aziende agricole, tranne alcuni comparti, avevano dimostrato di tenere, poi la guerra con gli aumenti del costo dell’energia ma anche l’aumento indiscriminato di materie prime che proprio con il conflitto bellico si è acuito in maniera sostanziale. E questo sta dando un autentico colpo di grazia a centinaia di aziende. Ci troviamo con settori come la zootecnia dove molte aziende lavorano per la sussistenza, nella speranza che la situazione migliori. Poi ci sono settori come la serricoltura, dove le serre vengono riscaldate col metano, i cui costi dell’energia si sono acuiti per 6-7 volte. Parlavo con una azienda che è passata da mezzo milione a 4 milioni come costi annui di energia. I rincari energetici tra l’altro, da settembre in poi, si stanno dimostrano nella loro interezza perché prima c’erano costi bloccati. Al momento la situazione è che tante aziende stanno valutando quanti fattori produttivi impiantare, con una produzione del 30-35% in meno non solo per l’aumento di costi ma anche perché non sappiamo quali sono le contrazioni del mercato dovute al minore potere d’acquisto dei con- sumatori, che soffrono essi stessi insieme alle aziende e che dunque sono costretti a comprare di meno».

Insomma, il classico cane che si morde la coda. «Certamente si tratta pur sempre di pro- dotti di prima necessità – prosegue Pirrè – ma è chiaro che la nostra serricultura, che è di pregio, è in grande sofferenza. Per alcuni, ad ogni modo, si stanno aprendo spiragli inaspettati come il mercato del nord Europa, principalmente dell’Olanda, che comprano da noi, oppure che chiedono a noi di produrre per loro. E’ evidente infatti che questa sia una emergenza che ha carattere europeo e che coinvolga soprattutto Paesi che ancora più di noi sono costretti a comprare energia per riscaldamento». Ed è proprio a livello europeo che Confagricoltura individua le possibili soluzioni che stanno, però, tardando ad arrivare. «E’ necessario un intervento immediato di ristoro dei costi. Bisogna mettere liquidità nel sistema. I nostri rappresentanti politici con- centrino la loro attenzione su Bruxelles».

 

Clicca il link seguente per leggere l’articolo originale su La Sicilia

la sicilia – ed. ragusa del 15.10.2022 – speciale Pianeta Impresa

Leggi